
Carmine Benincasa in Visioni e memorie di Calabria (2004)
Il 6 agosto 1900, in una sua poesia¹, Lou Andreas Salomé scriveva: "chiaro cielo su di me / mi voglio confidare: / non posso tra la gente qui / costruire la mia piccola vita. / Tu che ti estendi sopra il mondo / per ampi spazi e venti / cerca la mia patria tanto desiata / dove possa trovare me stessa. / Non voglio che una sola zolla / per starvi ferma, sicura." Giuliano e Cesare Di Cola hanno ritrovato la loro patria, la loro zolla di terra, la Calabria, e queste foto che lasciano a noi in eredità lo svelano [...] I fotogrammi dei Di Cola confermano che il nostro compito non è di conoscere quello che possiamo, ma quello che dobbiamo. La fotografia aderisce alla carne degli artisti fotografi Di Cola come ad una carta assorbente; il mondo è illeggibile sulla loro pelle, la Calabria è indecifrabile nel loro sguardo di fotografi. I Di Cola si nutrono della vita della fotografia. L'immagine è il loro (in)-finito, la luce dello sguardo sulle cose del mondo li scioglie dal compito della parola. La loro anima aderisce a ogni sillaba di visione, fino a comporre un alfabeto di armonia, un'anima di universo. E con le foto rubano il mondo e diventano "mondi". Basta un pressocché di nonnulla per passare dalla notte al giorno e consegnare a noi il giorno del mondo, insieme alla coscienza del mondo. Le foto sono i segni raccolti dai loro occhi, i suoni pronunciati dalle labbra della natura e dai frammenti dei resti della storia. Una spiaggia ci appare come l'immagine di un sospiro (in)-finito (si veda la foto "Tropea – Spiaggia vista dall'alto"), un laghetto come una frontiera eterna, senza limiti, perché è pura musica (si veda la foto "Sorgente di Nausica"). Nell'immobilità della visione ci restituiscono il movimento secolare del mondo e la coscienza delle radici. Queste foto hanno il profumo dei secoli e il dondolio del presente. L'oblio è sempre fuori dall'universo degli artisti-fotografi. Queste foto sono una lettera al mondo di chi conosce le origini e sa dove vuole andare. Una lettera che non attende risposta. Una confessione breve, ma definitiva, senza parole, con immagini scolpite nello sguardo del cuore. Queste immagini sono i pennelli della speranza di un intero popolo antico, il popolo calabro. Gli occhi degli artisti si aprono al nostro sguardo: insieme, siamo il nostro cammino. Noi stessi siamo il nostro universo, la nostra storia, il nostro presente. La speranza è qui, intorno a noi, nella nostra storia. La nostra storia è immensa ed antica. Siamo i segni delle mani dei nostri padri, siamo le labbra della natura. Siamo la primavera di un antico popolo. Le foto che seguono dei Di Cola parlano di tutto, della natura e della storia del popolo calabro, nello stile grandioso di una antica cronaca: le cose più lontane è come se fossero nel presente, l'avvenimento di un attimo furtivamente rubato dallo sguardo come se fosse inscritto e sigillato da qualche parte nell'eternità. "Il mio paese da tanto abbandonato / il mio paese nell'infanzia sognato, / lo ritrovai sulla mia via / e ora mi congedo in lieta nostalgia", scriveva Lou A. Salomé a Rainer Maria Rilke, pensando alla Russia. Queste foto dei Di Cola fanno balbettare ogni figlio della Calabria, pensando alla sua terra, terremoti di emozioni silenziose. Il tempo della foto è il tempo di una domanda che non attende vane risposte, certifica l'eternità di ciò che lo sguardo vede nel presente. Le fotografie dei Di Cola trattengono il pensiero, così come si trattiene il respiro, per meglio udire il silenzio delle ruote dei secoli che turbinano nel nostro cuore. I Di Cola scrivono su lastre fotografiche di uno stesso quaderno, come su un pezzetto della loro anima. Hanno fatto della Calabria la loro casa dell'anima e la guardano come una violetta del pensiero. Questi due fotografi hanno nostalgia della loro terra. La nostalgia, per loro, non è coscienza dell'assenza, ma presenza forte e intensa. Essi hanno l'immagine precisa dell'infinità solo guardando questo lembo di terra, il cui nome è Calabria.
[1] Manoscritto edito soltanto nel 1992 in edizione francese, poi tradotto nell'ottobre 1994 in italiano dall'editore Bollati-Boringhieri.
L'universo iconografico di Giuliano e Cesare Di Cola rappresenta un repertorio etnografico che soccorre nella ricostruzione della Calabria della memoria; un lavoro con l'occhio dell'anima, per fissare con uno scatto, su una pellicola sensibile, le immagini, i colori, il senso profondo della terra di Calabria e della sua gente. La tecnica si immedesima con l'estro, con il terzo occhio di poeta, per cogliere le radici profonde di una realtà antichissima, dura e duttile, che si traspone dall'immediato al senza tempo. Così le figure umane, i loro gesti e atteggiamenti - fra accettazione e disincanto, stasi e miraggio - ci trasmettono uno spaccato immaginario e concretissimo di questa forte e dolente, luminosa e amara Calabria.
Calabria e calabresi nell'Archivio Fotografico di Giuliano e Cesare Di Cola 2002 - Università della Calabria, Arcavacata di Rende (Cs) - a cura del Centro Interdipartimentale di Documentazione Demoantropologica "Raffaele Lombardi Satriani"
[...] Una rievocazione, perché alcune immagini risalgono al '62, e, per altri versi, una mostra di grande attualità; immagini che ci restituiscono una Calabria del passato, ma che ci offrono, anche, una Calabria del presente. Immagini straordinarie, perché non sono soltanto documenti offerti all'attenzione o alla curiosità del visitatore, ma anche immagini filtrate attraverso una sensibilità da artista».
(Prof. Ottavio Cavalcanti in Impressioni di Gianfranco Donadio, puntata del 28/01/2003)
Error
Quel fantastico mondo che fu . Una splendida antologia di immagini di Giuliano e Cesare Di Cola.
Nel vertiginoso evolversi, ma anche omologarsi, della società contemporanea, i "tesori della tradizione" rischiano di essere emarginati se non proprio di fatto cancellati. Eppure mai come oggi c' è una pletora di pseudocultori del passato, che riescono ad inventarsi anche tornei di Palio mai esistiti e a sfornare come nostrane pietanze forastiere; come purtroppo persiste una dissennata invadenza edilizia frutto più di incultura che di maestria ( se ne vedono mostruosi esemplari sulle coste e in cima ai colli), per nulla rispettosa non dico dell' habitat e del passato, ma anche della decenza e del buon gusto. Per ricostruire questo mondo in via d'estinzione il ricorso alle memorie non è certo sufficiente. Soccorre, per fortuna, l'universo iconografico di Giuliano e Cesare Di Cola padre e figlio intenti (da decenni il primo, da qualche anno l'altro) a fermare momenti e figure del mondo contadino rurale e artigianale, più "con l'occhio dell'anima" che con la macchina fotografica, come ha scritto Alberto Frattini. Un mondo che balza trasparente attraverso le nitide suggestive immagini raccolte e sobriamente chiosate nel volume "Pianeta Calabria. Tesori della Tradizione"... Vengono scanditi i tempi della semina e del raccolto, dell' allevamento e della pesca, del pascolo e della mungitura. Anziani e giovani alle prese con i frutti di sempre e le conserve di oggi, pensosi i primi, giulivi i secondi di fronte al perenne succedersi delle stagioni, anche esse sublimate nei frutti e nei lavori della terra in uno scenario ancora vivo in molti angoli della Calabria, che pare sublimarsi tuttora di miti e riti arcaici, laddove il tempo sembra essersi fermato non si sa davvero per quanto. Una autentica antologia delle immagini e della memoria, che dovrebbe - ci auguriamo - circolare anche sui banchi della scuola per alimentare le nuove generazioni le quali corrono il rischio di perdere quelle radici e la propria identità. (Pietro De Leo in «Calabria Letteraria»)
Come in un prezioso "Album di famiglia", Cesare e Giuliano Di Cola hanno fissato, con la ben nota impareggiabile maestria, visioni meravigliose di quella Calabria che Leonida Repaci descrisse uscita dalle mani di Dio "più bella della California e delle Hawaii, più bella della Costa azzurra e degli arcipelaghi giapponesi". E lo hanno fatto raccogliendo immagini tutte originali, in un percorso ideale che muove dal Pollino all'Aspromonte e nello stesso tempo può essere reimpostato dal lettore, secondo le proprie scelte e le proprie inclinazioni. La Calabria così come oggi si presenta: con le memorie del passato spesso travolte dai ricorrenti terremoti e dall'incuria dei suoi abitanti, ma anche mirabilmente custodite in chiese, monasteri e musei pubblici; con l'incanto delle proprie tradizioni contadine ed artigiane; e soprattutto con lo splendore delle sue ricchezze naturali, che la fotografia coglie e fissa in maniera sublime. Quest'album di Visioni e memorie costituisce così con i suoi squarci di luci e di ombre un'eccezionale fonte visiva degli inizi del III Millennio. Una nuova tappa prestigiosa dei due fotografi cosentini.
(Pietro De Leo, Presidente della Commissione Cultura Stato-Regione Calabria, Novembre 2003)
Con le spalle al futuro ma con l'intelligenza rivolta al domani, i Di Cola usano la fotografia in un modo preciso e specifico esaltandone le caratteristiche più dirette, più originali, ma non si lasciano sopraffare dalla supplenza che la macchina opera sull'uomo tecnologizzato per cui esaltano tutte le qualità che la chimica e l'ottica fotografiche consentono e lo fanno quasi con puntiglio teutonico ma propriamente per liberarsene e per costruire il loro registro organico. Così, nei contenuti, i Di Cola non abbandonano la preoccupazione di riprodurre l'aspetto esatto delle cose ed affinano anzi il procedimento descrittivo dandogli addirittura nuova dignità. La descrizione, la presa diretta sulla realtà come è percepibile dell'obiettivo non scadono però ad operazioni di compiaciuta ostentazione "notarile.

Lo sguardo nuovo e la memoria nella fotografia creativa di Giuliano e Cesare Di Cola
Nell'epoca segnata dall'edonismo più sfrenato e dalla folle corsa contro il tempo nell'illusione vana che sugli «attimi fuggenti» possano trionfare i deliranti sogni di eternità e onnipotenza per vivere nel vuoto pneumatico di un presente assoluto, non meraviglia il fatto che si vadano progressivamente cancellando, nelle menti e nei cuori dell'uomo-massa, le tracce di quell'arte della memoria custodita e tramandata per secoli – con alterne vicende e trasposizioni legate alla «teoria generale della conoscenza» – a partire dalla Grecia arcaica che ne aveva fatto una divinità, denominandola Mnēmosynē e considerandola madre delle Muse.
Giuliano Di Cola, nei suoi oltre quarant'anni di attività, ha accumulato esperienze diverse – partendo dall'umile, ma estremamente importante, dal punto di vista formativo, mestiere del fotoreporter – che lo hanno portato, dopo aver perfezionato gradatamente le sue tecniche espressive, a ricevere ambìti riconoscimenti, partecipando a mostre collettive o esponendo soltanto proprie opere, su vari soggetti, negli Stati Uniti, in Francia, in Germania e, recentemente, in Brasile per onorare la memoria di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Non va dimenticato, inoltre, che, nel 1984, godendo del privilegio di varcare le remote soglie dei monasteri eretti sul monte Athos, Giuliano Di Cola ha documentato – con immagini suggestive e artisticamente ineguagliabili, note ormai in tutto il mondo – le opere e i giorni delle comunità di monaci greco-ortodossi che abitano quel territorio impervio e, al tempo stesso, ameno.
Da un decennio Giuliano Di Cola condivide a pieno titolo i suoi meriti con il figlio Cesare che ai segreti della tecnica e dell'arte adoperate dal padre ha saputo aggiungere – facendoli con essi creativamente interagire mediante un'assidua e proficua sperimentazione – quelli appresi ed escogitati familiarizzando con gli strumenti nuovi offerti dalla tecnologia avanzata nel campo, oltre che dell'immagine fotografica, della computer grafica, come attestano l'allestimento e la gestione, da lui effettuati, a partire dal 2001, del sito web (www.pianetacalabria.it), divenuto 'meta' di ben 120.000 visitatori all'anno e inserito nel portale degli Archivi dell'Unesco.
Applicando i criteri metodologici di uno 'sguardo' che supera il contingente, e quindi la mera registrazione del 'visibile', pur partendo dall'hic et nunc – senza alcun intento, però, di fagocitarlo e 'fissarlo' in assoluto, annullandone la carica propulsiva e maieutica che vi si può rinvenire, attraverso il classico e meccanico clic della macchina fotografica tradizionale – Giuliano Di Cola, ha, per lunghi anni, con sapienza certosina e «intelletto d'amore», ripreso , in Calabria soprattutto, immagini del mondo contadino, dell'architettura rurale, delle tecniche di coltivazione dei campi, dei prodotti tipici, dell'arte culinaria, dei riti e dei mestieri antichi, dei monumenti storici e dei reperti archeologici e del patrimonio artistico in generale, dei paesaggi montani, collinari, marini e urbani, finendo per disporre di un archivio vasto e prezioso, ritenuto, a giusta ragione, una fonte ineludibile dagli studiosi di varie parti del mondo che vi hanno fatto ricorso – e continuano a ricorrervi – per ricerche attinenti ai vari campi dello scibile umano (spaziando dall'archeologia all'architettura, dalla storia dell'arte alla storia tout court, dalla letteratura all'antropologia, dalla sociologia all'economia, dalla geografia fisica all'ecologia) e per supporti iconografici ad articoli, saggi o testi antologici da pubblicare su settimanali, riviste specialistiche, guide, manuali e volumi monografici.
Giuliano Di Cola, piuttosto che perseguire finalità 'documentaristiche' di facciata con presunzione di 'oggettività', preferisce far avvertire la presenza attiva dell'uomo e dell'artista dalla forte personalità dietro l'obbiettivo della macchina fotografica adoperata con disincanto e, quindi, senza feticismo.
In virtù di tale 'poetica', nessuna concessione fa al folklorismo di maniera e al 'color locale', anche quando – come nel caso della presente raccolta di immagini, non poche delle quali ascrivibili all'estro del figlio Cesare – il soggetto è costituito dal centro storico della città di Cosenza.
Sceglie, infatti, di resecare sistematicamente, persino dai 'bassi' dei vicoli tuttora pulsanti di vita, le figure umane, epifanicamente evocate dagli oggetti come i panni, dai colori variopinti, stesi ad asciugarsi al sole e i vasi da fiori che fanno bella mostra di sé, essendo loro attribuita una funzione ornamentale essenziale in ambienti alquanto degradati e miseri.
Walter Benjamin, nel 1931 scriveva:
[...] l'elemento decisivo per la fotografia resta sempre il rapporto del fotografo con la sua tecnica [...][1].
E, nel 1936, osservava:
[...] quando l'uomo scompare dalla fotografia, per la prima volta il valore espositivo propone la propria superiorità sul valore cultuale. Il fatto di aver dato una propria sede a questo processo costituisce l'importanza incomparabile di Atget, che verso il 1900 fissò gli aspetti delle vie parigine, vuote di uomini. Molto giustamente è stato detto che egli fotografa le vie come si fotografa il luogo di un delitto. Anche il luogo di un delitto è vuoto di uomini. Viene fotografato per avere indizi. Con Atget, le riprese fotografiche cominciano a diventare documenti di prova nel processo storico. È questo che ne costituisce il nascosto carattere politico. Esse esigono già la ricezione in un senso determinato. La fantasticheria contemplativa liberamente divagante non si addice alla loro natura. Esse inquietano l'osservatore; egli sente che per accedervi deve cercare una strada particolare [...][2].
Ebbene, senza tema di smentite, si può affermare che quella «strada particolare» è stata trovata dall'«osservatore» delle «riprese fotografiche» di Giuliano e Cesare Di Cola, a giudicare dal successo di pubblico e di critica da esse ottenuto.
I portali dei palazzi signorili, i ruderi maestosi del castello svevo carico di storia e di leggende (rievocate qui, con grazia ed eleganza, da Cesare Di Cola nel suo saggio), le botteghe artigiane e i negozi e i caffè, gli acciottolati del corso principale, il dedalo di viuzze laterali riprese di scorcio, in dettaglio e in panoramica, le ampie vedute dall'alto con i tetti assolati o innevati dei palazzi e delle case fatiscenti addossate tra loro che – come ebbe modo di scrivere con forza espressiva Fortunato Seminara nel 1982[3] – «sembrano sorreggersi a vicenda», le «erte ripide che mozzano il fiato», appaiono riprodotti in immagini ora soffuse di gradazioni chiaroscurali ora sfavillanti di luci e di colori, quasi a scandire il tempo e il ritmo delle stagioni con i riflessi sottesi degli stati d'animo cangianti anche a seconda della prospettiva e rammemoranti talvolta le atmosfere magiche e incantate del De Chirico pittore «metafisico».
Il «paesaggio dell'anima» di Giuliano Di Cola, costituendo lo 'scarto' dalla 'norma' della teoria del 'rispecchiamento' in arte – cui continuano purtroppo a rimanere naturaliter fedeli gli ultimi rappresentanti della genia degli inguaribili laudatores temporis acti – produce un provvidenziale vero e proprio 'spiazzamento' in chi volesse continuare ad ostinarsi – coltivando un gusto retro – a rapportare alla propria esperienza di vita e ai propri ricordi questa o quella immagine, ricondotta invece a emblemi o simboli di una 'condizione umana', e pertanto a valori universali.
E ciò avviene grazie a un graduale processo di fascinazione che la potenza di rappresentazione e reinvenzione del reale genera con forza d'urto dirompente dopo il benefico effetto iniziale di contrasto e opposizione provocato dall'immediato mancato appagamento dell'orizzonte d'attesa del fruitore.
Come spiegare, altrimenti, l'enorme successo di pubblico – oltre a quello di nazionalità non italiana – di cui gode da più di due lustri, presso la vasta comunità dei calabresi non solo della diaspora, anche questo Viaggio nella Cosenza antica, giunto alla terza edizione?
[1] W. Benjamin, Piccola storia della fotografia, in ID., L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, Torino, Einaudi, 1966³, p. 68.
[2] W. Benjamin, L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, cit., p. 29.
[3] F. Seminara, Vecchia Cosenza, in F. Seminara – R. Mazzarelli – P. Ricca – G. D. Donato, Diario di pietre e di luce. Viaggio nella città antica di Cosenza, Cassa di Risparmio di Calabria e di Lucania, Cosenza, F7, 1982, p.14.
[...] La si può definire un contenitore, visto che si compone di un volume nel quale sono pubblicati lo studio storico (con un elenco di uomini celebri) sulla "Calabria Citra", tratto dal "Viaggio nel Regno delle due Sicilie" di Fortunato Stancarone, pubblicato a Napoli nel 1848; un profilo dell'artista e della sua opera dal giornalista d'arte Raffaele Mazzarelli; un piccolo assaggio della vasta produzione fotografica con la quale Giuliano Di Cola ha fermato il tempo nella Cosenza antica [...] La fortuna di Di Cola, secondo me, è stata quella di non essere nato a Cosenza, ma ad Ascoli Piceno; e di avere quindi visto, come una creatura fuori da se, con gli occhi dello scopritore, il complesso architettonico che costituisce il centro storico di Cosenza [...] (Michele Gioia)
Cosenza antica in un discorso per immagini dovuto all'obiettivo, meglio dire all'occhio di Giuliano Di Cola. Marchigiano di Ascoli Piceno trapiantato in Calabria, è qui a Cosenza, che Di Cola, questo operatore fotografico dotato di una sensibilità pronta come un radar alla scoperta dei "valori" visivi a contatto con l'antica civiltà bruzia, nei suoi echi secolari e nei suoi eterni ritorni, dopo varie esperienze professionali e dopo numerose partecipazioni alle più qualificate rassegne fotografiche in Italia e all'estero, scopre nel linguaggio della fotografia come arte un messaggio ben più profondo e credibile delle parole. Strutturate sulla base di un'armonico (e armonioso) tracciato di linee e di punti, intesi, questi ultimi, come frammenti disintegrati di un bell'equilibrio di spazi pieni e vuoti; di una felice partitura d'ombre (il tutto ottenuto grazie all'impiego della retinatura sulla memoria statica della pellicola: una pratica che eccita ed esalta l'uso della camera oscura e della bacinella di sviluppo), queste di Di Cola sono immagini che nascono dall'amore e dalla frequentazione assidua di Cosenza [...] I piccoli spazi prospicienti alle case padronali, gli estradossi dei ponti, i ballatoi, le scalinate a perdifiato spesso segnate da grandi archivolti, il lastricato dei cortili e delle stradine erte e strette, i vicoletti senza orizzonti e dalle pareti incombenti, assumono nell'immagine di Di Cola un palpito di memoria, meglio, un sapore di palinsesto, come se nascondessero trame complesse e cifrate delle vite che si sono consumate per quei vicoletti, quelle stradine e quelle scalinate, in quelle case e su quegli spazi, cortili, ballatoi. [...] Di Cola sceglie le tonalità care a Shelley: le tonalità sfumate dell'umido, della muffa, degli intonaci, dei legni smorte delle porte, la porosità delle pietre che vanno ad incorniciare i portali, l'oscurità soffice intravista dalle porte e dalle finestre, l'unto del fumo di carbone lasciato dai fuochi agli angoli delle case..., ed opera il più vero e affettuoso ritratto di Cosenza. (Raffaele Mazzarelli)
[...] avvertiamo la necessità di riscoprire la nostra identità, il legame con il nostro "centro storico", dove sono stratificate le "memorie" delle generazioni che ci hanno preceduto, la storia di una comunità di artigiani, di commercianti, di liberi pensatori, che si configuravano con l'essenza stessa della città, che faceva di loro cittadini partecipi e non distaccati dalle realtà delle tensioni umane, politiche e religiose dei loro tempi. E questa necessità di "identità" che spinge Di Cola a riscoprire le fonti pietrificate del suo passato, a percorrere con l'obiettivo fotografico e fissare sulla memoria statica della pellicola le immagini di vie e vicoli, di scalinate che si inerpicano fin sotto il Castello Svevo, di portali di antiche botteghe artigiane, di finestre che paiono "buchi neri", che nascondono arcani misteri di altre dimensioni di spazio e tempo. [...] Di Cola interviene stendendo sull'immagine un diaframma di pulviscolo atmosferico, che ottunde la spigolosità dei muri fatiscenti,ammorbidisce i contrasti del chiaro-scuro, come se le emulsioni materializzassero evocazioni oniriche, emerse dalla profondità della psiche, dove sono memorizzate le esperienze primigenie. Egli scava dentro la città storica, estrapola i particolari, li sceglie accuratamente, spinto anche dai suoi bisogni inconsci, raccoglie e fissa non il "pittoresco", ma quegli scorci della città che possono assurgere a simbolo di una condizione presente, e questo lo induce ad intervenire sull'immagine per darle una dimensione di tempo passato [...] Quasi tutte le sue opere sono da considerarsi oggetti estetici autonomi, ognuno dei quali ha una sua funzionalità in grado di mediare le esigenze consce e inconsce dell'autore e comunicarle al fruitore, il quale, a sua volta, è indotto ad un'attenta analisi dei significanti e dei loro nessi con la realtà soggettiva. Egli utilizza la scienza, la tecnica, per creare l'oggetto estetico, a differenza dei neo-impressionisti, con i quali ha un certo legame (la frantumazione della materia), che utilizzavano la pittura per pervenire alla scienza (ottica). E un processo che esemplifica il mutato atteggiamento dell'uomo di fronte alla tecnica, alla scienza, alle necessità di recuperare una dimensione umana della realtà, che è per Di Cola, innanzitutto, recupero di" identità", che passa attraverso la riscoperta del passato, consapevole che si è cittadini, uomini liberi, quando la coscienza storica individuale si configura con quella collettiva. (Franco Portone)
Poeta come sa essere, Giuliano Di Cola avrebbe potuto sciogliere un inno a Cosenza e avrebbe potuto cantarne fatti, vicende e personaggi. Ha preferito invece chiedere alla fotografia l'ausilio determinante che nelle sue mani diventa essenzialità. E l'ha percorsa in lungo ed in largo. L'ha rivissuta facendo parlare, più e ancor di più delle carte, 1'apparente immobilità delle immagini. Che sono bellissime nella loro dignità del tempo passato. Del tempo che fu. E la fotografia di Giuliano Di Cola come per incanto riesce ad annullare i segni del tempo che deteriora la bellezza ed esalta i segni del tempo, che di questa bellezza colgono l'essenza, quella che supera i confini del tempo e dello spazio. Una fotografia che parla il linguaggio della memoria non come mummificata nella freddezza di un museo ma come palpitante di vita e scoppiettante di vitalità. Una fotografia che penetra nella essenza della realtà a coglierne l'anima. [...] Fotografie come sonetti che cantano un inno d'amore. (Coriolano Martirano)
Antologia a cura di Pasquino Crupi
------------------------------------------
Le immagini ci assediano. Sparate, potenziate, iterate ai limiti del demoniaco dall'elettronica, dirette sulle nostre fragili vite schizoidi da schemi implacabili, inseguono e braccano l'occhio che si serra alla ricerca del vuoto-buio- tutto bianco-tutto nero. Dove non arriva l'elettronica arrivano le macchine fotografiche, sempre più piccole, più facili da usare, sempre pronte in ogni tasca, buone a nulla e capaci di tutto. Gli uomini e le cose non esistono più se non mediati attraverso scatti e riprese, trilioni di immagini ormai ci ossessionano con la loro falsa verità di "documenti". Le immagini seguono le leggi della moneta, si inflazionano, si sviliscono, quelle cattive scacciano le buone. Basta, dateci requie, o dateci buoni fotografi. Viaggiatori provenienti da più parti riferiscono che ne esistono ancora. Fotografi veri, con occhio e cuore d'uomini. Giuliano Di Cola è uno di questi. Da tempo si è sottratto alla tentazione e alla condanna di "documentare", di offrire un anonimo occhio di vetro bon à tout faire per veggenti distratti e confusi. Dalla fotografia, intensa come un processo unitario che va dall'inquadratura alle manipolazioni di stampa, ha fatto un irripetibile scandaglio-sonar capace di trarre da una prospettiva un fascio di informazioni emotivamente rilevanti. Un arco sbrecciato, una scalea corrosa, un androne ricco solo d'erbe inselvatichite, una maschera o un antico gesto legato a mestieri in via d'estinzione, sondati con lo scandaglio-sonar di Di Cola riversano segni precisi e netti, una storia, che è sempre storia d'uomini, come si sa. Di Cola non ferma i propri soggetti, li spia e li offre ancora vivi. Di fronte ai suoi lavori, anche in tempi d'inflazione visiva, è il caso di aprire gli occhi e di lustrarseli. (Salvatore Scarpino)
Questa ricognizione fotografica non è una mostra di cose morte, ma una visione fantasmagorica della civiltà contadina calabrese, rivisitata con intelletto d'amore da un poeta della luce e da un artista che sente il passato della nostra gente senza pateticismi pseudo romantici ma come ancestrale memoria d'infanzia emergente da un paesaggio tormentato come l'amore, come la fatica e la pazienza. (Carlo Cimino)
LUCA LUCIANO
Clarinettista e compositore partenopeo, ha contribuito in modo determinante al progetto Pianeta Calabria; Fragment #1 e Divertimento #4 hanno fatto da colonna sonora, valorizzando le immagini dell'Archivio Fotografico Di Cola. La musica e la poesia del Maestro hanno impreziosito anche il reportage Il Ricordo e la Speranza. L'eredità di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Il testo riportato in fondo e il brano The Mock Trumpet, all'epoca inedito, furono doni preziosi. leggiArchivio fotografico Cesare Di Cola
Mostre fotografiche, stampe fin art, tele fotografiche, stampe ai sali d'argento, cartelle, reportages, progetti e volumi fotografici.