Miti moderni nella torre d’avorio. Pubblicata online nel febbraio 2020, su AperitivoIllustrato Magazine Books, l'intervista a Virgilio Milana, artista romano. Cesare Di Cola, fotografo e appassionato di scrittura, incontra un vero frammento di Rinascimento contemporaneo italiano…
«Nell’immediato dopoguerra, sarà stato il 1945 o ’46, i primi soldi che ho guadagnato furono per delle maioliche, con su dei motti o proverbi, illustrati da immagini e scritte dipinte con vernici a smalto colorate. Tali quadrucci, corredati con una attaccaglia sul retro, li vendevo ad un corniciaio in via Cola di Rienzo, a Roma, accanto al negozio di calzature di mio padre. Veramente copiai l’iniziativa da un tizio che già forniva quel negozio; io, a 12 anni, provai a emularlo e ci riuscii. Una volta che ci incontrammo dal corniciaio, lui con finta cordialità si complimentò, sia per la qualità del lavoro che per la giovane età, e per dimostrare tale ammirazione mi fece una scafetta (a Roma si dice così per un pizzicotto sul mento), e dal male che mi provocò espresse tutta la sua irritazione.» Così scrive Virgilio Milana de Marchi nel suo volume autobiografico Nella torre d’avorio. Manifesti, effetti foto, animazioni cine, quadri, sculture, gioielli con smalti e tante invenzioni.
Precoce autodidatta e sperimentatore dell’esistenza, il Milana è un artista poliedrico che si impone a partire dagli anni Cinquanta. A soli 21 anni fonda con tre soci una delle prime agenzia di pubblicità a Roma, la Graphistudio, e realizza numerose campagne, manifesti, fumetti e copertine per marchi prestigiosi italiani e stranieri (KLM, Vespa, Aurum…). Nel 1959 prosegue il percorso professionale in modo autonomo, apre il suo Milastudio e collabora con Alitalia, Findus, Algida, Eldorado, Ichnusa, Bnl, Cna. Crea caroselli televisivi per la Campari, sviluppa un innovativo sistema di animazione (filmine didattiche) per la Fao e disegna una gran quantità di manifesti cinematografici (per la Metro-Goldwyn-Mayer, la Ceiad-Columbia, la Mirafilm…). L’arrivo dell’informatica spinge Virgilio Milana a una ‘dissolvenza incrociata’ tra il vecchio e un nuovo mestiere: apre una bottega d’arte nel centro storico della capitale, dove crea gioielli con smalti a fuoco, ispirati a quelli bizantini di San Marco a Venezia, rilievografie e sculture a sbalzo e a cera persa.
Conosco Virgilio da quasi cinque anni, essendo il mio dirimpettaio. Decido di fargli visita, presso lo studio/abitazione di Castelnuovo di Porto, e farmi raccontare alcuni aneddoti della sua vita; mi incuriosiscono particolarmente le sue ricerche in campo fotografico, la sua invidiabile collezione di fotocamere e l’attività di grafico.
È un caldissimo pomeriggio agostano e il borgo medievale, situato a una trentina di chilometri da Roma, è praticamente deserto. Porto con me anche la mia vecchia Hasselblad e un dono per i miei vicini, un panorama del nostro centro storico stampato su carta baritata. Salgo le ripide scalette di via delle Fornaci, supero lo slargo sede un tempo della storica trattoria de Lo straccione, giro l’angolo di palazzo Miselli e arrivo in via degli Effetti, davanti alla dimora di Virgilio ed Enza, sua moglie.
Affianco al portone d’ingresso una vetrinetta. All’interno della stessa un micione avvinghiato a un quadro dell’artista che riporta una dicitura: «È… mio fratello chi vola, chi nuota e chi cammina».
Suono il campanello, tirando un filo che sta alla destra del Guardiano, un’originale cassetta delle poste che ha la forma di una maschera metallica con dei lunghi baffi.
Mi apre Virgilio, che mi accoglie cordialmente e mi accompagna verso lo studio, a sinistra di un pannello scorrevole, decorato e con applique. Uno spazio onirico, senza tempo, losfeldiano, fiabesco; come se un artiere visionario o un folle inventore avesse voluto ricreare in un solo ambiente dimora, bottega e museo.
Quando nel 1982 Virgilio ed Enza presero possesso di questa casa, era tutto da restaurare, sebbene la struttura, anticamente collegata alla Rocca Colonna, fosse solida; mura di tufo spesse settanta centimetri e alberi di castagno messi in opera settecento-ottocento anni fa e utilizzati come travi dei soffitti. Il lavoro di restauro ha impegnato i due artisti per anni. Nel 1986 acquisirono anche una cantina contigua all’abitazione, una ex stalla con archi che sostenevano un solaio formato da fasciame e grossi pali di castagno. Il locale restaurato fu adibito a laboratorio per la creazione di gioielli e utilizzato anche per allestimenti espositivi, simposi e come luogo di ritrovo non solo di artisti. Anche in questo caso, tutto – gli spazi, le cose, l’atmosfera – riflette gli aspetti caratteriali dell’artista.
Spirito libero e colto intrattenitore, Virgilio ha fatto dell’ironia elemento imprescindibile, anche delle sue sculture costruite con lastre di rame (sbalzate, saldate, assemblate e decorate con patinature e smalti vetrosi). La maturità ha mitigato il lato fumantino, preservando la schiettezza, la genuinità e lo slancio vitale e giocoso.
Le vetrine dello studio sono come quei volumi per l’infanzia che una volta aperti in un attimo innalzano piccole e strabilianti architetture di cartone.
Prima di salire al piano superiore, mi soffermo su alcuni apparecchi fotografici: due Mackenstein (una 18x24 con obiettivo Berthiot e una 13x18 con obiettivo William Broters) e una Pocket della Eastman Kodak. Nella raccolta di fotocamere anche un torchietto a luce solare, esposimetri, banchi ottici e ingranditori; un emporio dei balocchi per un appassionato di fotografia.
Ci accomodiamo davanti al camino del salone, caratterizzato da un enorme e colorata decorazione calpestabile. «Io sono per metà ciociaro e per metà veneziano da parte di madre. Mio padre e i suoi genitori erano di Olevano Romano. Vennero a Roma in diligenza con la paura dei briganti; nel 1882 si stabilirono in via Panico, Rione Ponte, nei pressi di Ponte Sant’Angelo.»
Nato a Roma, a Palazzo Cenci, nel 1933, fu costretto per vicende familiari a lavorare fin da ragazzo come garzone e imbianchino. Con parte dei soldi guadagnati acquistava pennelli e colori. «Quindicenne, ciò che potevo lo andavo a spendere all’Artistica, in via del Babuino. Riesco a sentire ancora il profumo dei colori ad olio. Un ricordo che fa parte di una Roma sparita.»
Quando arrivano gli anni Cinquanta, l’Italia non è certo un paese spensierato. Ci si avvia verso un futuro benessere quasi diffuso; gli italiani sono impegnati nella piccola guerra quotidiana per la sopravvivenza, con la voglia di dimenticare le fatiche della ricostruzione. E nella Roma raccontata da Virgilio il vivere diventa un mestiere. Un ritratto brioso di una città dove baluginano lampi di umanità sorprendente e di fervida vitalità, emergono maschere e personaggi come usciti da un film neorealista; descrizioni che confermano la Roma felliniana, “lupa e vestale, aristocratica e stracciona, tetra, buffonesca”. «Era l’epoca in cui ancora esistevano quei meravigliosi negozi con preziose stigliature in legno come il Gran Caffè Aragno nell’allora corso Umberto I, Rons & Singer in piazza Colonna, con raffinata pasticceria, Le Tour in via Cola di Rienzo… e poi le tante osterie nel centro storico con il vino dei Castelli portato dai carretti a vino. Benigni in via dei Fienili, nei pressi del Foro Romano, forniva minuterie, viti e acciai vari; è lì che in seguito acquistai l’acciaio al carbonio con cui creai gli stampi per delle piccole serie di gioielli in argento, decorati con smalti a fuoco.»
Virgilio mi parla di ricordi infantili, di domeniche al cinema Arlecchino (Amleto con Laurence Olivier, Fantasia di Walt Disney…), di amori turbolenti, di sbornie e scazzottate, del primo matrimonio e delle due figlie, delle discussioni con Francesco Lo Savio e Pino Pascali, della passione per la montagna e lo sci, dell’amore incondizionato per i gatti, dell’incontro con Enza, compagna di vita e complice nelle diverse iniziative artistiche.
Il privato e le esperienze professionali s’intrecciano. D’altra parte l’ispirazione e l’approccio al lavoro artistico si rifanno a un modo di essere che persiste anche quando non si crea, un modo di vedere la realtà, di amare il mondo, di entrare in contatto con gli altri uomini. Poi c’è il mestiere del costruire, nel paese più antropizzato del mondo, e qui di retorica è difficile farne. Il Milana è un artista rinascimentale che rivendica la libertà creativa e il ruolo di intellettuale, ma sottolinea l’importanza e la necessità di una committenza, magari illuminata, e della perizia tecnica.
«Negli anni Cinquanta mi costruii un episcopio di compensato, con due lampadine, uno specchio collocato a 45° ed un obiettivo da ingranditore comperato a Porta Portese. Con tale strumento proiettai e disegnai, su del cartone adatto, delle foto di attori provando a fare dei bozzetti per dei manifesti cinematografici… Tra il 1970 e il 1971, realizzai la ‘macchina fotografica per sovraimpressioni’, che, in ripresa, permetteva di poter sovrapporre due immagini diverse, con la precisione data da viti micrometriche; tale macchina è costituita da due obiettivi che convogliano le due immagini sul piano focale attraverso un prisma, il tutto su di una solida struttura portante.»
Virgilio passa in rassegna alcune sue invenzioni e cerca di spiegarmi procedimenti e sviluppi delle sue ricerche in campo fotografico: «…acquistai un ingranditore Durst 6x6 e una Rolleflex 6x6, tutti e due di seconda mano, ed iniziai ad occuparmi di fotografia affiancandola alla grafica. Leggendo il Fotoricettario Hoepli, notai una formula che mi incuriosì, “viraggi per mordenzatura” un bagno chimico a base di ferricianuro di potassio e ioduro di potassio, che trasforma gli alogenuri di argento neri in alogenuri di iodio bianchi, cioè sbianca la parte nera della pellicola, che poi poteva essere colorata con aniline corrette con acido acetico, mentre la parte trasparente, che viene liberata dall'argento durante il fissaggio, rimane perfettamente pulita. Dopo varie sperimentazioni trovai la pellicola adatta, cioè la Kodalhit fotomeccanica ad alto contrasto della Kodak, ottenendo così immagini, scritte, marchi e simboli a colori da utilizzare come grafico».
Nel Milana il lavoro della comunicazione pubblicitaria si contamina non di rado con la produzione artistica. L’arte, per definizione, deve essere ambigua in quanto deve comunicare un messaggio talmente complesso, in modo da poter essere letto in modi diversi, da poter essere percepito da persone diverse, in luoghi e tempi diversi. L’arte, sostiene Philippe Daverio, non deve necessariamente comunicare a tutti e deve contenere un virus; tale è quando vedo un’opera d’arte e da quel momento guardo le cose fuori da me in modo diverso. La comunicazione pubblicitaria ha la funzione, per l’appunto, di rende pubblico, di richiamare all’attenzione, rendere noto; deve ridurre il messaggio nel modo più semplice possibile in modo che arrivi il più lontano possibile. Vale quanto mai il concetto espresso dai versi di Giovan Battista Marino: “è del poeta il fin la meraviglia”.
L’operazione pubblicitaria può contenere un tale grado di complessità da diventare una cosa di fronte alla quale l’occhio artistico deve riflettere. In alcune opere grafiche del Milana si palesa una capacità di andare oltre il messaggio; portano con sé un equivoco, un’evasione dall’ovvietà del reale. Quando questi lavori non hanno questa attitudine, sono comunque importanti testimonianze per l’analista antropologo, identificano e qualificano le comunità che le hanno scelte.
Le opere pittoriche di Virgilio Milana mi colpiscono perché dotate di una straordinaria allegria cromatica e perché possiedono la virtù della fantasticanza. Il semicapro del Milana suona il flauto di Pan e ricorda il Nureyev in L’Après-midi d’un Faune. Una ‘mitografia immaginativa’ e allegorica popolata da gatti, colombi, arlecchini, baccanti, cavalli alati, fauni e ninfe. Più che imitazione di cose viste con gli occhi, l’arte di Milana è incessantemente nutrita e vivificata dalle emozioni e dai sentimenti suscitati in lui dalla natura. «Dipingere è un gran piacere e ogni volta è una ricerca. Nella pittura, così come nella grafica e nell’arte del gioiello, la spinta vera è esplorare per capire, inventare o indagare nuove realtà, e può accadere anche nel quotidiano nella realtà di tutti i giorni.»
In questi processi sovviene in soccorso una lontana memoria, falde di passato, una miniera interiore di elementi informi, “un vuoto pieno di echi”.
«Avranno contribuito le necessità contingenti e il caratteraccio ma, forse è da lì che mi viene tanta facilità nel fare; comunque ho avuto la fortuna di risolvere con la creatività i problemi della vita. Posso affermare convinto che, tolti pochi momenti anche drammatici, campare mi ha divertito. C’è il racconto di un sogno che fece la mia prima moglie, che credo mi descriva adeguatamente. Qualcuno, non ricordo più chi, stava per farmi visita e lei lo informò che ero irraggiungibile, in quanto stavo... nella torre d'avorio, a giocare con le palline di naftalina.»